Ugo Leone, già professore ordinario di Politica dell’ambiente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli “Federico II”, ha pubblicato questo articolo che riproponiamo per sommi capi sull’edizione di Napoli del quotidiano Repubblica.

Non mi sembra abbia suscitato particolare interesse la notizia sullo stato (cattivo) della qualità dell’aria in Italia risultante dall’annuale indagine di Legambiente.

Si tratta dei dati sull’inquinamento atmosferico nei capoluoghi di provincia. Perché nei capoluoghi di provincia, cioè nelle città più grandi? Perché è soprattutto nelle città che va misurata la qualità dell’aria che si respira, nella consapevolezza che nelle città vi è la maggiore quantità di azioni che producono l’emissione in atmosfera di sostanze che ne alterano anche gravemente e per molti giorni dell’anno la naturale composizione, cioè l’inquinano e, inquinandola la rendono pericolosa per la salute umana. Non solo. Ma è dalle città che nascono e vengono immessi in atmosfera quei gas serra che sono alla base del mutamento climatico.

E qui scatta il becero negazionismo che cerca di mettere in discussione le responsabilità umane che lo causano: essenzialmente il sempre diffuso uso di combustibili fossili per la produzione di energia. Non l’energia che “fa luce”, ma soprattutto quella che mette in movimento i motori dei mezzi di trasporto collettivi e privati, la climatizzazione degli ambienti costruiti… Quelle azioni cioè per limitare la pericolosità delle quali ormai dieci anni fa (dicembre 2015) i rappresentanti di 196 Paesi riuniti a Parigi decisero che era giunto (comunque in grave ritardo) il momento di porre un freno a queste azioni sino a impedirne del tutto la diffusione entro la metà di questo secolo. Arrivandoci per gradi. Il 2030 è il primo grado: quello nel quale scatterà l’obbligo di rispettare i primi severi parametri.

Quando, cioè, dal 1° gennaio 2030, entrerà in vigore la nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria che riguarda soprattutto la presenza di PM10 (polveri sottili) che non dovrebbe superare la soglia di 20 g/mc. Così come per il biossido di azoto (NO2) per il quale la presenza nell’aria non dovrebbe superare i 20 g/mc.

Oggi, prima dell’entrata in vigore della nuova direttiva, con riguardo alla media annuale, secondo le rilevazioni di Legambiente, nessuna città supera i limiti previsti dalla normativa vigente. Ma, in assenza di interventi, dal primo gennaio solo 28 città su 98 sarebbero nella norma per quanto riguarda le polveri sottili e 44 su 98 per quanto riguarda ilbiossido di azoto. Significa che il 71 per cento delle città per il PM10 e il 45per cento per l’NO2 devono modificare i comportamenti attuali. Ma se solo il 31 dicembre del 2029 si accorgessero di doverlo fare, evidentemente dal mattino successivo sarebbero fuori legge.

Vi sono dunque, cinque anni di tempo per avvicinarsi ai parametri del 2030. Cinque anni sono molti, pochi, sufficienti?

Conoscendo bene le tendenze ad affrontare i problemi portandoli a soluzione quando ormai il tempo incalza riservandosi la richiesta di qualche proroga, risponderei subito che il tempo è poco. Comunque obbligatoriamente sufficiente per fare quello che si deve per mettersi in regola. Anche perché bisogna sapere e ricordare che l’Italia è il primo Paese in Europa per morti attribuibili all’inquinamento atmosferico: circa 50mila decessi prematuri l’anno. Il che significa che respirare mal’aria “nuoce gravemente alla salute”. Cioè ci si ammala sino a morirne. Per esempio con la pericolosa presenza del biossido di azoto per il qual le situazioni più critiche si registrano a Napoli, Palermo, Milano e Como, dove gli interventi imporrebbero una riduzione tra il 40% e il 50%.

Come fare? Col coraggio delle scelte nei settori massimamente responsabili: dalla mobilità alla riqualificazione energetica degli edifici. Cioè riducendo le emissioni inquinanti. Lo abbiamo visto anche con il Covid-19 quando con il blocco della circolazione automobilistica l’aria di molte città tra cui Napoli, diventò pulita. A Napoli i cinque anni potrebbero essere sufficienti. Non solo perché lo sviluppo della rete di trasporti metropolitani dovrebbe fornire una sostanziosa alternativa ai trasporti privati e su gomma. Ma anche e tanto meglio anche come impatto sulla salute, se si realizzassero le auspicate condizioni per rendere sempre più possibile il movimento “a piedi”. Quella possibilità, cioè, più volte auspicata delle condizioni per muoversi camminando nella “città dei 15 minuti”. Nella città, cioè, nella quale la maggior parte delle necessità quotidiane dei residenti può essere soddisfatta spostandosi a piedi o in bicicletta direttamente dalle proprie abitazioni. Poi tra il dire e il fare… ma gli obblighi del 2030 sono vicini e detto quello che si doveva dire è sempre più il caso di passare a fare.